Ed eccoci, cari amici. Con questa intervista al Giornalista Darwin Pastorin, iniziamo quel cammino di incontri in cui si evidenziano principalmente i percorsi di vita, i sentimenti, le emozioni e tanto altro che fanno parte della persona, del suo essere che si manifesta attraverso il pensiero filosofico messo in atto durante ciò che ha fatto nella vita. Interviste che hanno la peculiarità di entrare nel profondo dell’anima, individuando aspetti che ci possano far riflettere e magari creare quell’empatia con il nostro interlocutore che, anche se non lo conosciamo personalmente, lo possiamo scoprire vicino a noi attraverso quel suo raccontarsi capace di trovare un idem sentire che non ci saremmo mai aspettati. Oggi, come dicevamo pocanzi, abbiamo incontrato il giornalista Darwin Pastorin. La sua è stata un’intervista lunga ed esaustiva, capace di coinvolgere empaticamente anche il sottoscritto. Ma ecco alcune note sull’interlocutore.
Darwin Pastorin è nato a San Paolo del Brasile il 18 settembre del 1955, figlio di emigranti veronesi. E’ laureato in lettere moderne e giornalista professionista. E’ stato praticante al Guerin Sportivo, inviato speciale e vicedirettore di Tuttosport, direttore di Tele + e Stream TV, direttore ai Nuovi Programmi di Sky Sport, direttore di La7 Sport, direttore di Quartarete TV. Ha un blog su Huffington Post. Ha scritto numerosi libri. L’ultimo: “Gaetano Scirea. Il Gentiluomo” (Giulio Perrone Editore).
Ecco, questa è la sua scheda. Un curriculum di grande spessore professionale e soprattutto umano, proprio quello che scopriremo da questa intervista. Buona lettura.
Darwin, tu sei nato in Brasile da genitori veronesi. Perché questa decisione di mamma e papà di andare a vivere oltreoceano?
“La storia della mia famiglia comincia alla fine del 1800 da Santa Maria di Sala nel veneziano, con i miei bisnonni paterni che con mio nonno ancora piccolo partono per andare in Brasile. I miei bisnonni erano contadini e decisero di partire perché quelle terre erano più fertili. Così decisero di restare in quella terra, fecero altri figli nati in Brasile e a un certo punto hanno fatto un timido tentativo di ritornare. L’unico a restare fu mio nonno che, nato in Italia, partì per la prima guerra mondiale. Al termine di quel primo periodo bellico, mio nonno decise di trasferirsi da Santa Maria di Sala a Verona. Qui nacque mio padre e dopo la seconda guerra mondiale assieme a mia mamma i miei zii e i miei nonni decisero di andare in Brasile per un futuro migliore. Tuttavia, questa volta non fu la terra da coltivare che spinse i miei genitori a trasferirsi, ma la ricerca di una grande metropoli proiettata nel futuro come la città di San Paolo, visto che papà progettava mobili, dipingeva e faceva sculture. Era il desiderio di realizzare i sogni condivisi assieme a mia madre. Qui nacqui io e mia sorella, mentre mio fratello maggiore è nato a Verona”.
E poi il ritorno in Italia.
“Sì, avevo sei anni quando ho attraversato l’oceano dopo che mio padre ebbe l’opportunità di sfruttare una proposta di lavoro da parte di una ditta di mobili di Torino. Era il 1961 e la città piemontese era in fermento sotto l’aspetto economico e industriale”.
Mamma e papà. Con chi hai avuto maggiore complicità?
“Diciamo che sono stato considerato il cocco di mamma e della nonna materna, però ho avuto sempre un bellissimo rapporto con entrambi i miei genitori. Diciamo che la mamma è sempre stata presente e mi ha trasmesso l’amore per la letteratura, visto che lei era una lettrice straordinaria”.
Dunque, la tua storia con la città di Torino è iniziata all’età di sei anni…..
“Sì, avevo sei anni, anche se poi ci sono stati degli andirivieni, visto che sono anche andato nel Canavese, poi a Roma, Milano, Bologna, ed ho anche girato il mondo quando sono stato inviato speciale di Tuttosport. Tuttavia, se mi chiedi quale città preferisco ti rispondo senza alcun dubbio che è Torino, perché qui è nato mio figlio e sono morti i miei genitori”.
Come nasce la tua passione per il giornalismo?
“Ho sempre avuto la mania di scrivere fin da bambino. Ricordo ancora il mio primo giornalino composto da soli due fogli a righe. Frequentavo la scuola elementare ed ho venduto per dieci lire un’unica copia a mia mamma. Poi, in terza elementare, alla scuola Silvio Pellico, il mio maestro Ugo Pagliuca mi chiese cosa mi sarebbe piaciuto fare da grande e io risposi senza alcun dubbio che avrei voluto fare il giornalista. Da lì è cominciata questa mia voglia di fare giornalismo che ho continuato fin dai tempi del liceo. In quel periodo scrivevo per il Piemonte Sportivo, un settimanale che si occupava del calcio minore”.
Sei stato editorialista di molti giornali, collaboratore e poi direttore di tante televisioni. Qual è stato il periodo lavorativo che ricordi con maggiore intensità?
“Ricordo tutte le mie tappe con grande soddisfazione, perché ho avuto modo di conoscere colleghi e persone straordinarie. Ho collaborato con Calcio film, sono stato al Guerin Sportivo e poi al Tuttosport che è stato il coronamento del mio sogno personale, poiché quello era il giornale che io leggevo fin da ragazzo. Ricordo che lo portavo anche a scuola per poterlo leggere sotto il banco. Avevo come punto di riferimento Vladimiro Caminiti che poi ho avuto la fortuna di conoscere ed è anche diventato il mio maestro di giornalismo, visto che è stato lui a insegnarmi a cominciare il racconto del calcio con il suo “Dal verde del prato, all’azzurro del cielo”. Poi, ho avuto anche la fortuna di avere come maestro di letteratura Giovanni Arpino, un’altra stella del giornalismo e della letteratura italiana”.
Negli anni in cui sei stato direttore di Quartarete Tv curavi personalmente “Le teorie di Darwin”, un contenitore di interviste intimiste capaci di dare un’impronta di introspettiva per le domande fatte ai tuoi interlocutori. Come nasce questo tuo desiderio di porre in analisi l’interiorità rappresentata dai sentimenti umani?
“Che bella domanda! Le teorie di Darwin è una di quelle trasmissioni che io ricordo con grande affetto come “Sky racconta”, nel periodo in cui collaboravo con Sky Sport. Sai, io sono sempre stato come diceva Arpino, e cioè cronisti bracconieri di storia e personaggi. Quando intervisto una persona desidero studiarla prima, andando a cercare tutto il possibile e anche l’impossibile per fare poi questo incontro con l’ospite di turno. Devo dire la verità che sono venute fuori delle cose interessanti, dove le persone si raccontavano senza reticenze e senza timori, visto che a volte portavano in studio anche delle fotografie da mostrare, di momenti personali che nella loro vita si sono trasformati da felicità in dolore o anche da gioia in malinconia. E’ stato come portare alcuni pezzi di sé, che tanto piaceva all’ospite”.
Chi ti conosce dice che sei una persona molto sensibile e attenta al lato umano! E’ così?
“Questo è un bel complimento. Io credo che certe mie caratteristiche sono emerse proprio per essere figlio, nipote e pronipote di emigranti. Quando tu hai sentito e conosciuto la sofferenza della tua famiglia che poi si è realizzata, rimane sempre quel marchio di chi ha avuto origini contadine. Allora dimentichi il valore di niente, il valore di un seme, di un frutto, dell’attesa di una giornata di pioggia, di quando deve arrivare il sole, della raccolta del grano. Tutte cose che ti fanno guardare la vita con poesia e sempre con un passo indietro, piuttosto che un passo avanti. Quello che ho imparato nella vita è dare molta importanza ai piccoli gesti, alle piccole cose; proprio come Gozzano che esprimeva le piccole cose senza andare a cercare l’eleganza forbita”.
Darwin, che cos’è il giornalismo?
“Il giornalismo continua a essere la mia vita, la mia passione, il sogno che sono riuscito a realizzare. Oggi ho un blog su “Huffington Post” che mi dà molte soddisfazioni e poi continuo a scrivere libri. In questo periodo sto scrivendo una storia per ragazzi. Ma è proprio l’esercizio continuo della scrittura che tutti i giorni mi prende e mi appassiona. D’altra parte, dopo 41 anni di giornalismo resta sempre quel sacro fuoco che arde in te”.
Che idea ti sei fatto del giornalismo di oggi?
“E’ difficile per gente come noi che è cresciuta con la tipografia, la bozza delle pagine, il linotype, la macchina da scrivere, fare un distinguo con oggi. Era un altro mondo il nostro! Oggi è diventato più difficile, anche se consiglio sempre i giovani giornalisti a non mollare mai e inseguire i propri sogni. Oggi è un giornalismo che va veloce perché internet ha capovolto tutto e la notizia viene bruciata in un attimo. Ci sono dei siti molto interessanti che fanno capo alla cultura e allo sport, anche se io sono ancora molto legato ad andare in edicola e comprare il giornale. Anche il giornalismo sportivo è cambiato rispetto a ieri, in cui era più facile avvicinare i calciatori per le interviste, senza passare attraverso gli uffici stampa ma limitandosi a contattare telefonicamente il diretto interessato o al massimo la sua segreteria. Questo agevolava il rapporto professionale e umano. Pensa che ancora oggi condivido l’amicizia con Paolo Rossi e Leo Junior”.
Negli anni hai scritto molti libri, a quali di questi sei maggiormente affezionato?
“Sono tutti figli miei, e dunque mi è difficile dire quali di questi preferisco. Diciamo che “Lettera a mio figlio”, scritto sul calcio ed edito da Mondadori, è stato per molti versi un bel momento. Tuttavia, posso dire che ricordo tutti i miei libri e la fortuna di aver pubblicato per diversi editori: da Feltrinelli a Einaudi, da Giulio Perrone e altri. Anche adesso continuo a scrivere e leggere, è una passione che non morirà mai. Pensa che tutte le sere devo leggere almeno due ore, altrimenti non riesco ad addormentarmi. E’ una malattia, una piacevole malattia che fa di me un ammalato di letteratura!”.
Giornalista e scrittore. Che differenza c’è?
“Non mi ritengo un vero e proprio scrittore, ma piuttosto un giornalista che racconta le storie”.
Come nasce la tua passione per la Juventus?
“La mia prima squadra del cuore è stata il Palmeiras di San Paolo del Brasile. Il centravanti di quella squadra era Josè Altafini, un altro mio grande amico. Quando sono arrivato in Italia nel 1961, proprio nel periodo in cui tutti mi parlavano di questo boom economico di un’Italia in grado di accelerare su tutto, arrivai in una Torino in cui la Juventus aveva vinto il suo dodicesimo scudetto. Non ti saprei dire perché ho scelto di tifare per la Juve, piuttosto che per il Torino, l’Inter o il Milan. Chissà, forse sono stato affascinato dal nome di questa società di calcio, anche perché i bianconeri vinsero poi il tredicesimo scudetto sei anni dopo, e cioè nel 1967”.
Quindi non si può dire che hai cominciato a tifare Juve per stare dalla parte dei vincenti……!
“Certo che no. E poi in famiglia c’è mio figlio Santiago che tifa per il Cagliari, Fabrizio tifa per il Torino, mio papà anche se veronese tifava per il Napoli, mia mamma tifava un po’ per tutti ma aveva la passione per il Chievo”.
Ancora oggi hai una particolare simpatia per Pietro Anastasi. Perché?
“E’ il mio idolo ma anche un grande amico. Ricordo che nel 1968 Anastasi giocava nel Varese e in un incontro con la Juventus vinto dalla squadra lombarda per 5 a 0, Pietro fece tre gol. Mi colpì molto questo giovane che sembrava un sudamericano, un brasiliano per il modo di giocare, senza pensare che poi avrebbe fatto uno straordinario gol in mezza rovesciata in Nazionale, nella finale bis contro la Jugoslavia. Così, fin da quando Anastasi giocava con il Varese, sognavo che potesse un giorno giocare per la Juve. E, come tutti sanno, è poi diventato centravanti della Juventus ed è stato il mio idolo. Misi il suo poster nella mia camera, andavo a chiedergli l’autografo al campo Combi e poi col tempo diventammo pure amici, tanto è vero che venne al battesimo di mio figlio ed abbiamo passato dei bei momenti assieme. Era Pietruzzu…!
Darwin, chi è Darwin Pastorin?
“Uno che ha ancora voglia di sognare!”
E’ vero che oggi, dopo tanti anni di luminosa carriera, preferisci il silenzio piuttosto che i riflettori puntati su di te?
“E’ vero. Mi piace l’idea di andare in campagna con un buon libro. Vado sempre meno in televisione e cerco di godermi le piccole cose della vita. Ho un gatto che ho ereditato da mia mamma quando è mancata, ha 14 anni e si chiama Gilda. Ed è proprio vero che gli animali danno tanto conforto, perché mi sembra di rivedere mia mamma quando eravamo insieme”.
Che differenza c’è tra amicizia e amore?
“Sono due sentimenti forti. L’amicizia è fondamentale, perché nei momenti di difficoltà hai bisogno di avere un amico o un’amica vera per poterti sfogare, raccontare i tuoi momenti difficili di vita. E non c’è cosa più triste di un tradimento di un’amicizia. L’amore, invece, è quella cosa che ti fa battere il cuore e fare progetti assieme ad un’altra persona. E’ il motore della vita, come la nascita di un figlio, come credere che ogni giorno è particolare anche se poi fai la spesa o paghi la bolletta. E’ amore anche fare lo sforzo di pensare positivo”.
Darwin, rimpiangi qualcosa del tuo passato?
“Sì, avrei voluto fare più domande a mia madre e a mio padre. Sono quelle domande che sono rimaste lì, in sospeso. Cose non dette che risalgono a ciò che è stata la mia famiglia, i miei genitori, i miei nonni, che sono comunque sempre presenti nella mia vita. Il ricordo non è dolore, ma è dolcezza. E’ come una carezza che scaturisce dall’anima. Ecco, forse è proprio questo il rimpianto. Domande rimaste in sospeso……!
Che rapporto hai con il tempo che passa?
“Ho un rapporto positivo perché non ho paura di invecchiare. Non mi fa paura il tempo che passa perché è stato tanto vissuto e quindi ho ancora voglia di fare tante cose, di vedere tante cose, di leggere tante cose, di scrivere tante cose”.
Come vedi il tuo futuro. C’è qualcosa o qualcuno che desideri ti aspetti dietro l’angolo?
“Come ogni padre ho il sogno di vedere mio figlio realizzato nella vita, di vedere dei nipoti e di andare a visitare quei luoghi del mondo che non ho ancora visto. Salute permettendo, mi piacerebbe mettere ancora in atto un programma dei viaggi”.
Dal punto di vista umano, che cosa ti ha insegnato la vita?
“Mi ha insegnato ad amare e rispettare gli altri, soprattutto le persone in difficoltà, quelli che soffrono. Sai, quando penso alle persone che vengono qui da noi a cercare il futuro, inevitabilmente penso a mio padre ai miei genitori, ai miei nonni e ai miei bisnonni. Non c’è nessuna differenza tra queste persone e i miei cari. Questo mi ha insegnato la vita, a credere di non aver fatto chissà che cosa, perché non hai fatto niente. Una cosa che non sopporto è proprio l’arroganza. Più di una volta penso a Gaetano Scirea, un campione di calcio che ha saputo vestire con umiltà la gloria. Un campione che ha vinto tutto, ma è sempre rimasto una persona semplice. In ogni sua intervista tu potevi essere chiunque e rappresentare un grande giornale o un piccolo settimanale, ma la sua risposta era sempre la stessa: GRAZIE! Ecco, forse dovremmo imparare ad usarla di più questa parola, perché in questo percepisci l’umiltà e la semplicità di trasmettere il pensiero filosofico che nella vita nulla ti è dovuto”.
Salvino Cavallaro